giovedì 9 febbraio 2012

Un assaggio del nuovo romanzo

Sono appena tornata da una vacanza in Messico e l'occasione è stata "ghiotta" per trascorrere ore di assoluto relax davanti a un mare splendido dai mille colori a scrivere, scrivere e scrivere. Il mio secondo romanzo "Nata in una casa di donne" è quasi terminato. Qui un piccolo assaggio:


Giorgio era un romantico. Nato anche lui nel sud Italia, si considerava però un cittadino. Veniva da Napoli, e ne era fuggito dopo la fine della guerra per cercare quell’autonomia e quella serenità che nella sua casa natale non esistevano ormai già da tempo. Ne aveva vissute di cose lui, e ne aveva viste…
Figlio di uno “scarparo”, che a differenza del ciabattino le scarpe le creava, non si limitava a ripararle, aveva vissuto una fanciullezza tutto sommato felice. Abitava in una casa di due stanze enormi, adiacente alla bottega del padre, che condivideva con una decina tra fratelli e sorelle di tutte le età, e lui era il terzogenito. Sarebbero stati sedici, se fossero vissuti tutti, perché sua madre, che soffriva di disfunzioni non meglio definite, era stata convinta da un medico che solo durante la gravidanza i suoi disturbi si sarebbero attenuati, e lei giù a sfornar figli. All’epoca si viveva con poco e fare lo scarparo era un mestiere nobile, che portava tanti denari in casa, perché i ricchi signori e le loro dame non facevano altro che ordinare nuove calzature per mostrare al mondo quanto era alla moda la nobiltà partenopea. E così mastro Giuseppe si poteva permettere di avere una carrozza, con la quale, nei giorni di festa, portava a spasso la famiglia (riusciva a farceli stare tutti!) fino a Portici e, a volte fino a Posillipo, a vedere il mare e il golfo di Napoli in tutto il suo splendore. - Uè, masto Giusè, è bella a vita dint’a carruzzella eh! – lo apostrofavano i vicini invidiosi di tanto benessere. E mastro Giuseppe salutava con la punta delle dita mentre sua moglie faceva le corna in basso e bisbigliava irripetibili scongiuri. Poi vennero la guerra, e i bombardamenti, e la fame. Nel settembre del 1943 Giorgio aveva tredici anni. Da giorni viveva con la sua famiglia rintanato in casa, uscendo solo di notte con suo padre in cerca di cibo, rischiando la vita ad ogni angolo a causa del coprifuoco. Neppure il mercato nero riusciva più a soddisfare i bisogni di una popolazione stremata e terrorizzata dai continui attacchi e costretta a vivere nei rifugi, in condizioni malsane, senza sapere se e quando sarebbe potuta uscire.
Giorgio e la sua famiglia erano rimasti a casa loro perché suo padre non voleva abbandonare i suoi preziosi attrezzi nelle mani degli sciacalli e, soprattutto, in quelle dei tedeschi che pattugliavano le strade e si appropriavano di ogni cosa potesse tornare utile prima di evacuare la città. La fame li aveva spinti a raccattare, lungo la ferrovia, qualunque tipo di vegetale spontaneo riuscissero a trovare; persino la “pucchiacchella”, che generalmente si usava per preparare il pastone ai maiali, pareva una prelibatezza in mancanza d’altro. E così mamma Lucia li rimpinzava di minestre di patate e insalata, sperando di riuscire a saziare l’appetito senza fine dei suoi dieci pargoletti. Molti in famiglia si ammalarono, qualcuno morì. Giorgio si avventurò fino a Salerno, dove si trovavano gli alleati, per cercare un po’ di penicillina che avrebbe potuto salvare uno dei suoi fratellini. Quaranta chilometri d’inferno, correndo di notte alla flebile luce della luna, nascondendosi dietro ogni cespuglio, ogni anfratto, ogni volta che sentiva il rumore di passi cadenzati o lo scoppio di un motore, con l’eco lontano di mitragliatori che sparavano, chissà a chi, chissà a cosa…
Ma non fece in tempo; suo fratello morì mentre lui, con le lacrime agli occhi, stremato, il viso sporco di fango, riceveva nelle mani, da un soldato americano, il prezioso farmaco. Forse fu la rabbia che gli montò in corpo come una marea per quell'inutile avventura, forse fu la disperazione di voler vedere finito, in un modo o nell’altro, tutto quell’orrore; si da il caso che Giorgio si ritrovò, quel 27 settembre 1943, a gettare pietre e insulti sui tedeschi che transitavano dal Rettifilo, partecipando così, senza saperlo, a quella storica insurrezione popolare che sarebbe stata ricordata come “Le quattro giornate di Napoli”. “Io vulesse truvà pace, ma na pace senza morte, una mmiez’à tanta porte s’arapesse pe campà.” (Eduardo De Filippo da “De Pretore Vincenzo” 1948).¹
Avrebbe dimenticato il dolore, col tempo, o forse lo avrebbe solo trattenuto nel luogo più recondito del suo cuore, chiuso dal lucchetto del silenzio perché la voce avrebbe potuto tradirne la presenza. Giorgio si risollevò, come Napoli, ma perse l’innocenza. Trascorse ancora qualche anno in famiglia, per terminare gli studi, e poi partì per la carriera militare, come se quella scelta potesse farlo sentire al sicuro. Non ci furono lacrime né abbracci con suo padre, né sua madre lo riempì di raccomandazioni; il tempo della dolcezza e dei sorrisi aveva lasciato il posto alla fatica di ricostruirsi la vita.

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